Finanziamenti imprese

La “Potenza di fuoco” che può far bruciare.

Sarà noioso, sarà, apparentemente, poco interessante, ma non si può non approfondire la misura che, annunciando, in pompa magna, liquidità alle imprese, nasconde dei rischi che, ancora una volta, nessuno o forse in pochissimi hanno evidenziato e spiegato.

Le banche, in primis, sembrano anestetizzate, nonostante le accuse che ricevono, basate sui soliti luoghi comuni che, addirittura, sfociamo in richieste di prove d’amore.

Ma veniamo a noi:

Tutti abbiamo capito, ormai, che la potenza di fuoco annunciata, altro non è che un aumento delle garanzie da parte dello Stato e che i soldi veri e propri (la, tanto abusata, liquidità) dovrebbero essere erogati dagli Istituti di Credito sotto forma di veri e propri prestiti.

Ma nessuno ha ancora spiegato che, non essendo intervenute deroghe o modifiche alle norme vigenti, vi sono tutte una serie di possibili conseguenze che, quanto meno, rischiano di aggravare le posizioni sia di chi richiede sia di concede.

In particolare, esiste l’art. 218 della legge fallimentare, titolato: ricorso abusivo al credito, che punisce, pensate, gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un'attività commerciale che ricorrono (o continuano a ricorrere) al credito, dissimulando il dissesto o lo stato d'insolvenza dell’impresa.

In sostanza, si chiedono finanziamenti, pur sapendo che gli stessi, mai, potranno essere, realmente, utili e sufficienti a risanare l’azienda, perché, ad esempio, l’esposizione debitoria è troppo elevata rispetto ai ricavi e, magari, l’imprenditore non presenta un piano di risanamento quanto meno fattibile.

Ebbene, di tale reato (perché di reato parliamo)  può essere accusata, anche, la Banca, in concorso, ed, a tal fine, segnalo un’ interessante sentenza della Suprema Corte di Cassazione, precisamente, della sezione civile III, del 14 maggio 2018, n. 11695, con la quale viene ribadito che:

“In tema di concessione abusiva di credito, sussiste la responsabilità della banca, che finanzi un'impresa insolvente e ne ritardi perciò il fallimento, nei confronti dei terzi che, in ragione di ciò, abbiano confidato nella sua solvibilità ed abbiano continuato ad intrattenere rapporti contrattuali con essa, allorché sia provato che i terzi non fossero a conoscenza dello stato di insolvenza e che tale mancanza di conoscenza non fosse imputabile a colpa”

Dunque, dobbiamo ragionare, in linea generale, considerando che la Banca, oltre a non rientrare del prestito concesso, potrebbe rischiare di essere chiamata a risarcire i danni a soggetti terzi (soci, creditori etc e perché no anche lo Stato) ed a subire, anche, un procedimento penale (molto probabilmente a carico di chi ha autorizzato la concessione di  detto finanziamento).

Ma non è tutto, l’art. 216 comma 3 della legge fallimentare punisce con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.

Questo articolo, in sostanza, mira a tutelare la par condicio creditorum, prevista dall’art 2741 c.c., in base al quale non si può favorire un creditore rispetto ad un altro, in assenza di una causa legittima di prelazione (privilegio, pegno od ipoteca). Per fare un esempio: i lavoratori hanno privilegio per cui, possono, (anzi devono), essere pagati per primi.

Parliamo in sostanza del reato di bancarotta preferenziale ed anche qui il dibattito del possibile concorso della Banca è sempre attivo ed impegna dottrina e giurisprudenza da molto tempo.

Ma la cosa che deve far riflettere, attentamente, prima di “puntare” tutto sul finanziamento è il fatto che anche i crediti per i tributi erariali e locali sono privilegiati e, dunque, è importante valutare, attentamente, cosa si sta facendo.

Questo per evitare di trovarsi nella condizione paradossale (ma non impossibile) che l’impresa utilizzi soldi, prestati dalla Banca e garantiti dallo Stato, per, magari, pagare fornitori, non sapendo che lo Stato stesso se non pagato per primo, risulterebbe pregiudicato nei sui diritti.

Quanto scritto sin qui non vuole essere un eccesso di allarmismo, volto a sostenere che non bisogna fare ricorso al credito in quanto, sempre e comunque, pericoloso; ma vuole solo fornire un contributo di riflessione e discussione su norme, che in questo momento non vengono valutate al cospetto di un’emergenza che, a mio avviso, non può costituire, automaticamente, una causa di esclusione di responsabilità.

Se non viene prevista una deroga alle norme vigenti, sarà, assolutamente, ancor più importante prima di chiedere e prima di concedere un finanziamento, un’analisi approfondita e precisa della situazione dell’impresa e delle misure che la stessa intende adottare nel medio lungo periodo per risanare la propria situazione.

A mio avviso, scaricare la colpa sugli Istituti di Credito, senza avere chiare queste problematiche, significa non voler approfondire e non volere, realmente, comprendere che la posta in palio è alta e coinvolge tante componenti non liquidabili con prove d’amore.

È comprensibile per chi, stanco e demoralizzato dalla burocrazia delle “scartoffie”, non ha tempo e voglia di accettare, né tanto meno ricercare, complesse motivazioni, ma non è giustificabile per tutti quei giuristi, economisti ed esperti bancari, inclusi Ministri dell’Economia laureati in lettere e filosofia, che dovrebbero riempire ogni luogo di riflessioni e dibattiti concreti e costruttivi. In questo momento sono loro i veri pompieri che devono evitare che questa annunciata potenza di fuoco, bruci tutto.

Attendiamo! Una grande virtù hanno le persone forti: la calma.

06/05/2020

Avv. Stefano Casu